Rassegna Stampa

Da calciatore a professore, da chitarrista a genio di Striscia
Dipiù

Da calciatore a professore, da chitarrista a genio di Striscia

Da calciatore a professore, da chitarrista a genio di Striscia

Ecco la storia di Antonio Ricci ora anche in libreria con la sua autobiografia.

Da Albenga, in provincia di Savona, pittoresca cittadina marinara affacciata sulla riviera ligure dove faceva il professore alle scuole medie, è arrivato al successo diventando il più importante e forse anche il più potente tra gli ideatori di programmi della TV italiana.
Quasi trenta anni fa si inventò Striscia la notizia, e non solo: tra le sue “creature” ci sono anche tante altre trasmissioni di cui, almeno una volta nella vita, tutti abbiamo sentito parlare. Da Drive in a Paperissima, dal concorso Veline al quiz Cultura moderna, solo per citarne alcune.
Antonio Ricci, con il giornalista Luigi Galella, ha recentemente scritto un libro sulla sua vita intitolato Me tapiro (Mondadori, 18 euro), il cui ricavato andrà in beneficenza al Gruppo Abele di don Ciotti, in cui ha provato a raccontare tanto di lui: dalla sua infanzia trascorsa in una casa come tante, con una sorella amica di due anni più giovane e un’altra più piccolina, il papà Gerardo che era maresciallo dell’esercito e la mamma, Nada, maestra elementare e attrice, nel tempo libero, in una compagnia di teatro dialettale. «Per qualche inspiegabile motivo lei e mio padre davano per scontato che io da grande avrei fatto il medico chirurgo e mia sorella Cecilia l’insegnante», mi dice subito Antonio Ricci. «Non ci andarono lontano, con l’unica differenza che 6 stata mia sorella a diventare un chirurgo mentre io, nella prima parte della mia vita, ho fatto l’insegnante di scuola media e anche il preside in un istituto tecnico per periti agrari. Quando ero al liceo i miei genitori non sapevano nemmeno che giocassi a pallone, che ero quasi un professionista, lo scoprirono un giorno che si ruppe il bus della squadra facendomi arrivare a casa a notte fonda. In realtà, io tante cose in casa non le dicevo nemmeno. Belle o brutte che fossero le tenevo per me».
«Dove giocava?», chiedo. «Partecipavo al campionato nazionale Dante Berretti, organizzato dalla Lega Pro. La formazione era quella composta dalle riserve della prima squadra dell’Albenga. Pensi che per giocare a calcio venivo pagato quindicimila lire mese e mille lire in più per ogni punto classifica che facevamo». 
«Pensò mai di fare carriera nel calcio?», domando. «Nel libro confesso come la mia fulgida carriera di terzino fluidificante sia stata compromessa dalla constatazione dell’incolmabile divario tecnico che mi separava da un attaccante del Savona che stavo marcando, il grande Pierino Prati, campione europeo nel 1968 e finalista mondiale del 1970 con la Nazionale italiana. In realtà ci fu un secondo episodio che moralmente mi diede il k.o. Se vuole glielo racconto in esclusiva mondiale». «Forza, racconti…». «Successe nel 1970, era inverno e andammo a giocare ad Asti, in Piemonte. Faceva molto freddo, aveva nevicato e metà di noi liguri la neve non l’aveva mai vista. Iniziammo a riscaldarci e notammo che uno degli avversari era già sul campo. Andammo a conoscerlo. “Io sono di Perugia e gioco a centrocampo”, ci disse. Poi l’arbitro diede il via all’incontro e quel ragazzo iniziò a calciare forte al punto che la palla nemmeno si vedeva dove andasse. Pim, pum, pam: il nostro portiere, per cercare di parare i suoi tiri, buttandosi ripetutamente sul terreno ghiacciato, si fece male e fu costretto a uscire. Non ne avevamo uno di riserva. Mi convinsero a mettermi in porta dicendo che ero il più portato perché ad Albenga giocavo anche nella squadra di pallavolo…». «Lei riuscì a parare i tiri di quel ragazzo di Perugia?», chiedo. «Ci provai, ma erano dei missili. Il pallone era un pezzo di iceberg che pesava come il piombo. Quando iniziai a respingerlo, dagli spalti iniziarono a prendermi in giro, gridarono che ero un “portiere d’albergo”. Quel ragazzo era Giancarlo Antognoni che, poco tempo dopo, sarebbe diventato il simbolo della Fiorentina e nel 1982, in Spagna, avrebbe alzato la Coppa del mondo con gli Azzurri di Enzo Bearzot. Vedendolo giocare, capii la sostanziale e ineccepibile differenza tra l’ “essere” e il velleitario “volere essere”». «E tornò a studiare diventando poi un insegnante», dico. «Come le venne in mente di lasciare il posto fisso per cercare fortuna nello spettacolo?». «Quando ero al liceo suonavo la chitarra banjo in un complesso folk, I Villani, e cantavo e suonavo il basso in un complesso rock, The Flymen, gli uomini volanti. All’università facevo spettacoli di cabaret sia da solo sia con mia sorella Cecilia, esibendomi un po’ in tutta Italia. Quando insegnavo, nei giorni feriali, il mio raggio di azione naturalmente si restringeva e dovevo viaggiare di notte in auto per arrivare puntuale la mattina a scuola. Poi la mia vita cambiò». «In che modo?». «Avevo conosciuto Beppe Grillo in un locale di Genova, il Jolly danze, in cui io ero fisso ogni giovedì sera. Eravamo diventati amici, era anche venuto a fare un provino per il mitico Derby Club di Milano, ma non era stato preso. Una sera, proprio mentre mi esibivo al Derby, Beppe mi cominciò a gridare: “Mi vuole Pippo Baudo, tu mi devi aiutare, mi devi scrivere i pezzi”. Decisi di seguirlo, lasciai la scuola e iniziai a fare la televisione, a scrivere per lui, inizialmente senza comparire nei titoli di testa La prima trasmissione che firmai fu Fantastico del 1979. A seguire le altre due edizioni di Fantastico senza Beppe e poi Te la do io l’America e Te lo do io il Brasile». «E la televisione non ha più smesso di farla lanciando poi nel primo dei suoi successi, Drive In, che andava in onda su Italia 1, tantissimi personaggi che tuttora sono sulla cresta dell’onda come Carmen Russo e Lory Del Santo», dico. «Come e perché decise di puntare su di loro?». «Carmen Russo ritenni subito che fosse perfetta per Drive In. lo immaginavo quel programma come una parodia degli “esagerati anni Ottanta” e quindi doveva esserci un’esagerazione di tutto, di battute, di comici, quindi anche la protagonista femminile doveva essere esagerata. Carmen era formosa, aveva le caratteristiche delle donne dei fumetti e io la presi subito». «Dopo Carmen Russo, al Drive In arrivò Lory Del Santo che aveva caratteristiche molto diverse». «Nel mio libro è bene documentato come all’epoca Silvio Berlusconi non fosse interessato a Drive In che andava in onda su Italia 1 e a trasmissioni simili. Così su Canale 5 se ne fece uno tutto suo, lo chiamò Grand Hotel e mi portò via buona parte del cast, compresa Carmen Russo e il regista. Compì un vero e proprio reato. A quel punto, calcai la mano: misi sotto contratto un plotone di ragazze formose, le ragazze fast food, e al posto di Carmen per puro senso della sfida misi Lory Del Santo, una bella dalle forme asciutte, che di Carmen era l’esatto contrario. Naturalmente Drive In sulla “piccola” Italia 1 continuò ad avere successo, mentre Grand Hotel sull’ammiraglia Canale 5 durò due stagioni fatte per tigna e poi chiuse». «Dopo Drive In, nel 1988 lei inventò il primo Tg satirico della televisione italiana, Striscia la notizia, che tuttora è uno dei programmi più seguiti», dico. «Uno dei simboli di Striscia la notizia è il Tapiro d’oro, cui dedica anche la copertina del suo libro, il premio che periodicamente assegna a chiunque abbia combinato un guaio o subito un torto. Come nato il tapiro?». «Intanto va detto perché, fra tanti animali, decisi di sceglierne uno così poco noto come il tapiro. All’inizio, quando mandavo gli inviati a fare le interviste, spesso capitava che l’intervistato scappasse. Serviva un modo per attirare l’attenzione, così pensai a un premio. Però, un premio qualsiasi forse non avrebbe attirato a sufficienza l’attenzione e pensai a un animale dalle forme inusuali, con il muso lungo, uno di quelli che prima di riconoscerlo devi guardarlo per qualche secondo. In redazione, quando qualcuno era triste e aveva il muso lungo, dicevamo: “Sei proprio attapirato”. Provammo così con il tapiro e funzionò perché, mentre l’intervistato lo guardava per capire che animale fosse. il nostro inviato trovava il tempo di piazzare le sue domande». «II primo Tapiro d’oro a chi lo diede?», chiedo. «Lo feci consegnare dal Gabibbo, il pupazzo simbolo di Striscia la notizia, ad Alberto Cardino, un giudice cui stavano per togliere un’indagine unicamente perché, secondo me, stava scoprendo troppo. Lui fu il primo “attapirato” ad andare in onda su Striscia la notizia. Poi, ci sono anche delle storie segrete legate al tapiro…». «Mi dice la più scottante, quella che non ha mai rivelato e che nessuno potrà trovare nel suo litio?». «La signora Franca Pilla, vedova dell’ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, mi chiese una mandria di tapiri da regalare ai nipotini. Gliene mandai moltissimi e non lo dissi a nessuno. Oggi, a distanza di anni da quel giorno, penso si possa rivelare quanto lei e il presidente fossero due appassionati del tapiro di Striscia la notizia». «Oltre al tapiro, un altro simbolo di Striscia la notizia sono le veline, le ragazze che ballano sul bancone dei conduttori». dico. «Come le creò?». «Le veline del regime fascista erano le imposizioni scritte con la carta carbone alle quali dovevano attenersi i giornali. Pensai che con il termine “veline” si potessero chiamare anche delle ragazze che portavano notizie ai conduttori su fogli di carta. Era una presa in giro al mondo dell’informazione». «Inizialmente, come sceglieva le ragazze?», domando. «Non le ho mai scelte io, all’inizio le ho sempre fatte scegliere a mia moglie e alle mie figlie. Volevo che le veline fossero ragazze gradite ad altre donne. La sera, dopo cena, mia moglie e le mie figlie si mettevano a visionare i filmati con i provini e mi dicevano: “Eccole, sono loro”, e a me andavano sempre bene. Questo fino al 2002…» «Perché fino al 2002?», chiedo. «Quell’anno decisi che avrei trovato le veline attraverso un concorso televisivo. Lo feci quando il regista Gabriele Muccino mi chiese di visitare i miei studi, di mostrargli come lavoravamo, perché desiderava girare un film sul nostro mondo intitolato Ricordati di me. Gli dissi anche che le veline le facevo scegliere in famiglia, ma mi resi conto che non mi credeva. Desiderava raccontare qualcosa di diverso rispetto alla realtà, un mondo “maialo” in cui le ragazze erano soggiogate a potenti produttori: un mondo che nulla c’entrava con la famiglia di Striscia la notizia. Quando lo capii, decisi di anticiparlo e quello stesso anno feci scegliere le veline da gruppi di giornalisti attraverso un concorso televisivo. Feci centro: quando il suo film andò nelle sale raccontando di provini fatti in maniera poco onesta, non risultò credibile e Gabriele Muccino fu punito dalla divina provvidenza». «In che senso?», domando. «Muccino, che tanto aveva cercato di criticare le veline, dopo l’uscita del suo film si fidanzò con una ex velina e da allora non si è più ripreso. Dirò di più. Si fosse dedicato a denunciare il marciume nel mondo del cinema, che senz’altro conosceva ma non osava attaccare, avrebbe fatto un film ancora oggi di grandissima attualità e non il loffio Ricordati di me, che non se lo ricorda più nessuno». «C’è una coppia di conduttori che vorrebbe a Striscia la notizia ma che, in questo momento, le risulta impossibile avere?», chiedo. «Certo, a condurre vorrei i personaggi più chiacchierati del momento: l’ex allenatore della Nazionale di calcio Gian Piero Ventura e l’ex presidente della Federazione italiana giuoco calcio, Carlo Tavecchio. Altrimenti, come rivelo anche nel mio libro, vorrei Fiorello: anni fa ci ero quasi riuscito ad averlo…».

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