Associazione mafiosa, estorsioni e usura, traffico di stupefacenti e armi. E poi riciclaggio e reati tributari, false fatturazioni e scambio elettorale politico mafioso. Queste le ipotesi accusatorie avanzate dalla Dda della Procura della Repubblica di Brescia che hanno portato all’esecuzione delle ordinanze di custodia cautelare nei confronti 32 soggetti e al sequestro preventivo di oltre 1,8 milioni di euro. Il quadro emerge dalle note dei carabinieri: Mario Pari sulle colonne di Bresciaoggi e giornalisti di altre testate ne riportano vari dettagli. La maxi operazione interforze, scattata alle prime luci dell’alba di giovedì 5 dicembre, ha coinvolto le province di Brescia, Milano, Reggio Calabria, Lecco, Varese, Como, Verona, Viterbo e Treviso.
La tesi dell’accusa è che nel Bresciano, se venissero confermate tutte le imputazioni, fosse attiva una locale di ‘ndrangheta. I presunti dominus di questa articolazione sarebbero legati alla potente famiglia degli Alvaro di Sinopoli e Sant’Eufemia d’Aspromonte (Reggio Calabria), una delle cosche calabresi spesso annoverate nel “gotha” dell’organizzazione, nei report degli inquirenti.
Le parole del presunto capobastone sulla suora ora ai domiciliari: «Lei è una di noi»
A colpire l’opinione pubblica è stato soprattutto il coinvolgimento di una religiosa che si trova ora agli arresti domiciliari. Suor Anna Donelli, 58 anni e una storia di volontariato all’interno delle carceri bresciane e milanesi a sostegno dei detenuti, avrebbe avuto rapporti con l’organizzazione, tanto che la Procura le contesta il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. «Lei è una di noi», così il presunto capobastone parlava, intercettato, con riferimento alla religiosa.
La suora avrebbe fatto da tramite per traghettare messaggi dall’interno all’esterno del carcere e viceversa, trasmettendo in tal modo comunicazioni utili all’operatività della cosca. E, come si legge nell’ordinanza firmata dal Gip, «informazioni utili per meglio pianificare strategie criminali di reazione alle attività investigative e dell’autorità giudiziaria» nonché funzionali a risolvere controversie all’interno delle carceri, tra soggetti protetti dal clan e altri detenuti. Un patrimonio, se venisse confermato nei tre gradi di giudizio, inestimabile per gli affiliati.
Le comunicazioni illecite con i carcerati, storicamente e simbolicamente veicolate dai classici e cinematografici “pizzini”, in questo caso venivano appunto filtrate dalla voce della suora che, con il pretesto del sostegno religioso e della confessione, riusciva così ad evitare controlli e sorveglianza da parte dell’amministrazione penitenziaria circa il contenuto dei colloqui.
L’inchiesta di Luca Abete sulle comunicazioni “social” dei detenuti tramite cellulari
In generale però la possibilità di venire ascoltati e intercettati dalle forze dell’ordine, fortunatamente, esiste. Ma se invece le organizzazioni criminali eliminassero anche questo rischio residuale? E se i detenuti, in particolare quelli sottoposti a sorveglianza speciale, potessero comunicare direttamente dall’interno degli istituti penitenziari tramite telefonini introdotti illegalmente?
Il nostro Luca Abete ci ha raccontato di come molti detenuti sui social postino contenuti video, tramite cellulari, che li ritraggono impegnati in cucina o addirittura in possesso di sostanze stupefacenti.
L’inviato di Striscia la notizia ha intervistato Nicola Gratteri, procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli, da decenni in prima linea nel contrasto alle organizzazioni mafiose e, tra l’altro, oggetto di insulti proprio da parte del presunto gruppo ‘ndranghetista sgominato nel Bresciano, come risulta dalle intercettazioni raccolte dagli inquirenti.