L'inventore del tg satirico di Canale 5 riceve da Sorrisi il Telegatto per i 35 anni del programma.
Da Tv Sorrisi e Canzoni del 7 novembre, l’intervista ad Antonio Ricci di Ezio Genghini.
Entrare nel mondo di Striscia significa trovarsi in un universo a sé stante. Nonostante il trasferimento avvenuto otto anni fa da Milano 2 a Cologno Monzese, nel quartier generale di Mediaset, Striscia, per volere del suo inventore-papà-anima (scegliete voi la definizione che preferite) Antonio Ricci, rimane una repubblica indipendente. L’abbiamo visitata per consegnare a Ricci il Telegatto per i 35 anni del programma (tra poco ci arriviamo) e questa sensazione di indipendenza un po’ piratesca la si respira prima ancora di entrare.
Anzitutto Ricci ha ottenuto un edificio tutto per sé, staccato dagli altri centri di produzione. Inoltre, questa palazzina spicca nel grigio milanese perché è completamente “affrescata” con dei graffiti dai colori sgargianti e dai soggetti che ripropongono i simboli che incarnano i temi cari alla trasmissione. Per esempio, come ci spiega Vittoria Ricci, figlia di Antonio, che ha seguito personalmente, tra le altre cose, l’opera di “striscizzazione” della palazzina, i murales con le onde, non solo permettono a Ricci, lontano dalla sua Alassio (SV), di vedere un po’ di mare, ma hanno la forma di punti interrogativi. Perché il dubbio è alla base del lavoro di Striscia (e anche su questo tra poco ci torniamo). Così come i due soli i cui raggi illuminano la piazzetta recentemente dedicata a Gianfranco D’Angelo (il primo conduttore con Ezio Greggio) simboleggiano l’avversione per il pensiero unico e coloro che si ritengono depositari di verità inscalfibili. E poi naturalmente Tapiri a profusione e di qualsiasi dimensione che ci scrutano da ogni angolo, ricordandoci che “l’attapiramento” può arrivare quando meno te l’aspetti.
Una volta entrati, dopo le foto di rito, il direttore di Sorrisi Aldo Vitali gli consegna il Telegatto. Il tutto avviene nel museo di Striscia, anch’esso curato da Vittoria Ricci, e che è in verità un vero e proprio museo della televisione, con feticci come il Tapiro di sale per Wanna Marchi e la parete delle querele ricevute da Striscia (tutte senza danni).
Applausi per il prestigioso premio, brindisi, e finalmente nell’ufficio di Ricci può cominciare la nostra chiacchierata. Interrotta solo da qualche copione da approvare e da richieste di interviste da smistare, perché è lui l’uomo del momento, visto il polverone sollevato con i “fuorionda” di Andrea Giambruno ai quali è seguito il benservito della sua compagna-premier Giorgia Meloni.
Ricci, lei ama ripetere che il dubbio è il padre di Striscia. Ma in questi 35 anni qualche certezza ve la sarete portata a casa…
«Sì, certo e questa è la parte più costruttiva di Striscia e cioè il fatto che con i nostri servizi abbiamo dimostrato che nonostante ci siano in giro molte persone che imbrogliano e approfittano dei deboli, c’è però anche una parte sana del Paese che lavora e si dà da fare per far andar bene le cose. Soprattutto tra i giovani. E Striscia dà spazio a queste realtà e appoggia molte associazioni che promuovono questo atteggiamento».
Rimane il fatto che Striscia si propone di dare allo spettatore gli strumenti per farsi un’idea sua…
«Sì, era infatti l’idea iniziale, quando ho deciso di fare questo programma. Facendo vedere cose diverse da quelle imposte dai telegiornali, insinuare il dubbio e invitare lo spettatore a cercare la verità e non ad aspettarla pronta, preconfezionata».
A proposito, ci racconta come l’è venuta l’idea di fare Striscia?
«Mi è venuta guardando il Tg1 che dava la notizia che la responsabilità della tragica strage di Piazza Fontana del 1969 era dell’anarchico Valpreda. Io non capivo tutte queste certezze da dove venissero e ho pensato che sarebbe stato bello avere un telegiornale che, magari anche in modo un po’ irriverente e non serioso, potesse dare un altro punto di vista».
Analizziamo un po’ la struttura di Striscia. Cominciamo dagli inviati, una delle anime del programma. Che caratteristiche devono avere?
«Anzitutto devono avere capacità di ascolto, avere in testa il dubbio e non partire con dei pregiudizi o tesi preconfezionate. Sapere che può esserci sempre una verità nascosta. E poi devono avere una buona dose di coraggio, perché capita di trovarsi in situazioni anche pericolose».
E gli autori?
«Hanno un ruolo fondamentale e ci siamo dati un’organizzazione particolare: gli autori (che lavorano in coppia) non seguono sempre gli stessi inviati, ma circa tre volte l’anno c’è una rotazione, anche la scaletta è seguita da una coppia di autori che cambia ogni due settimane. Questo permette di non “sedersi” e di avere sempre una visione globale di tutta la trasmissione. E ci ha consentito, per esempio quando c’è stato il Covid e molti mancavano dalla redazione, di riuscire ad andare in onda lo stesso, perché tutti sanno fare tutto».
Andiamo avanti: i conduttori. Quali sono i criteri per sceglierli e accoppiarli?
«Come in tutte le coppie comiche, l’idea è che ci sia sempre uno che subisce e uno che “prevarica” un po’, così si forma quella dialettica che è fondamentale. Poi ci sarebbero altri criteri, per esempio io cerco di mettere uno del Nord e uno del Sud, ma poi spesso questo non riesce e le cose vanno bene lo stesso. Per esempio, Iacchetti non doveva affiancare Greggio, ma poi è andata bene e sono diventati molto affiatati e anche molto amati».
Non possono mancare le Veline.
«La figura delle Veline è cambiata in questi 35 anni. Ormai nessuno si sognerebbe più di accusare di strumentalizzare il corpo femminile, è chiaro che le Veline sono una parodia di tutto ciò. Negli ultimi anni ci siamo orientati su ballerine già formate così è più facile anche per loro entrare subito in sintonia. E comunque una delle funzioni delle Veline è anche quella di ricordare che quello che va in onda è pur sempre un varietà, anche se spesso parliamo di cose molto serie».
E infine non possiamo non dire due parole sul Gabibbo. Anzitutto ci spiega cosa vuol dire il nome e come nasce?
«Gabibbo in dialetto ligure vuol dire straniero, uno che viene da fuori, spesso dal Sud. Nasce dall’esigenza di rappresentare la figura dell’esternatore, che erano quelle figure che in tv cercavano, e cercano, consenso e ascolti urlando e fomentando risse. E quindi il Gabibbo ha gli occhi fissi, non ha le orecchie per ascoltare, non parla: rutta. Infatti, come ho detto più volte, io odio il Gabibbo».
Però poi nasce l’SOS Gabibbo che ha aiutato e aiuta quotidianamente tantissime persone in difficoltà…
«Sì, abbiamo fatto molte battaglie e continuiamo a farle perché evidentemente riempiamo un vuoto che qualcuno ha lasciato».
Una curiosità: è vero che le canzoni del Gabibbo piacevano a Fabrizio De André?
«Certo e non solo: il suo sogno “proibito” era quello di entrare nel costume del Gabibbo. Naturalmente io gliel’ho sempre sconsigliato perché, alto com’era, me l’avrebbe distrutto».
Quali sono le inchieste che le danno più soddisfazione?
«Sono contento quando riusciamo a beccare quelli che organizzano le truffe agli anziani, perché sono persone indifese. E spesso le forze dell’ordine hanno utilizzato il nostro materiale per operazioni su vasta scala e per dimostrazioni nelle università della terza età».
Parliamo di fuorionda. Ci racconta come fa a scovarli?
«Sfatiamo una fake news: nessuno mi porta i fuorionda, semplicemente tutti gli studi televisivi sono collegati da una bassa frequenza e noi stiamo in ascolto e spesso la “pesca” è ricca e fortunata. Ed è una pesca assolutamente legale tanto che la Corte europea dei diritti dell’uomo mi ha dato ragione».
E per andare sull’attualità come ha fatto Andrea Giambruno a cascarci?
«Mah, chi lo sa? Comunque si sente nel fuorionda che lo avvertono di stare attento a Striscia e lui si giustifica dicendo cose strane, tipo che c’è la pandemia… Comunque, poi deve aver capito perché dopo quei due episodi, che risalgono a diversi mesi fa, non ci ha più “regalato” altro».
Striscia è la fabbrica dei tormentoni. Come nascono?
«Devono essere brevi e facili da ripetere per la gente. Ma bisogna stare attenti che i tormentoni non diventino un tormento. Insomma, a un certo punto bisogna abbandonarli».
Torniamo un po’ indietro nel tempo: lei ha fatto il preside e ha insegnato alle scuole medie. Le è servita questa esperienza nella sua vita televisiva?
«Sì, soprattutto la mia esperienza di insegnante. Per imparare ad ascoltare e a formare un gruppo. Qui a Striscia ho creato nel tempo un gruppo di lavoro che funziona e il lavoro di squadra è alla base di molti nostri successi».
Ancora una curiosità: perché lei è a Milano da tanti anni e non ha mai voluto prendere casa e sta invece in un anonimo residence?
«Perché preferisco essere precario e in ogni momento potermene andar via. Quando sarà, chiudo la mia valigia che tengo vicino al letto e vado».
Ma pensa che si stuferà mai di fare Striscia?
«In teoria no, perché è una trasmissione che diverte molto anche chi la fa, perché ti dà dei riscontri immediati. Insomma, a volte non è ancora finita la puntata e già è scoppiato un casino per qualche nostro servizio (ride)…».