Stefania Petyx ci porta in uno dei quartieri più difficili di Palermo, la Guadagna, per parlarci di beni confiscati. Qui sono presenti alcune strutture sottratte dallo Stato ad un soggetto considerato il boss locale per anni. Oggi si trova in carcere. I beni, che potrebbero rappresentare una risorsa per il quartiere, se riassegnati alla società civile, oggi versano invece in condizioni pietose: sono delle vere e proprie discariche a cielo aperto e i bandi emessi dal Comune per dar loro nuova vita sono andati deserti.
Quella sui beni confiscati è una delle battaglie più importanti che Stato e società civile possono e devono condurre assieme per scardinare i capisaldi del potere mafioso. Ecco perché Striscia, da sempre, si occupa di questi temi contribuendo ad accrescere la consapevolezza, nell’opinione pubblica, di questa fondamentale partita contro il malaffare. Tuttavia, non sempre l’iter di questi beni segue un percorso virtuoso di riassegnazione alla collettività, come ci ha raccontato la nostra Stefania Petyx a più riprese. In un caso, alcune ville confiscate a Cosa Nostra sono state addirittura occupate abusivamente da circa dieci famiglie che vivevano indisturbate in quegli immobili da tredici anni. Rivediamo il servizio:
Ora ripercorriamo assieme la storia dei sequestri e delle confische dei beni appartenenti ai boss. Non si può che partire dalla legge 109 del 1996, approvata dal Parlamento in seguito ad una partecipata raccolta firme sostenuta in primis da don Luigi Ciotti, fondatore di Libera. Il contesto sociale e politico nel quale si inseriva l’iniziativa popolare era quello offerto da un Paese ancora scosso e in lutto per le conseguenze della strategia stragista di Cosa Nostra. La norma introdusse nell’ordinamento procedure snellite utili a riassegnare alla società i beni confiscati alle organizzazioni criminali di stampo mafioso e istituì il monitoraggio nazionale sui beni sequestrati e confiscati. I beni, una volta rappresentazioni plastiche della caratura e della potenza dei boss, passavano dall’essere luoghi di morte, corruzione, precarietà, sfruttamento e malaffare, all’offrire potenzialmente possibilità di crescita e sviluppo per la società civile e la comunità locale.
Un doppio colpo per i clan. Da un lato l’evidente privazione di beni e proprietà rappresenta un vulnus per le finanze delle famiglie mafiose. Dall’altro la confisca colpisce anche l’immaginario collettivo stereotipato in tema di malavita. Uno dei falsi miti artatamente riverberati dal mafioso, proprio per ottenere consenso sociale e legittimità nei territori sui quali vorrebbe spadroneggiare, è quello legato alla rappresentazione di sé come datore di lavoro capace di donare opportunità, a titolo di favore, proprio laddove lo Stato non riesce. Ecco perché questa legge ha rotto le logiche di tale circolo vizioso: ora è lo Stato a poter offrire opportunità di lavoro e di riscatto, legali e pulite, proprio grazie a quei beni confiscati. Ecco perché allo stesso tempo qui, nella riassegnazione di quegli stessi edifici, si gioca una battaglia di credibilità istituzionale le cui sorti influiscono sullo stato di fiducia che i cittadini ripongono nello Stato.
Al 31 dicembre 2023, secondo l’ANSBC (Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata), i beni immobili confiscati erano 43.422. In testa a questa mappatura compaiono tradizionalmente nelle prime posizioni quelle che nel gergo degli studi afferenti all’ambito della sociologia della criminalità organizzata vengono definite le “Regioni a tradizionale presenza mafiosa”, quindi Sicilia, Campania, Calabria e Puglia. A seguire a stretto giro è la Lombardia, dato che funge da cartina al tornasole dello stato di infiltrazione e radicamento delle mafie al nord. Di questi beni il 55 per cento (23.658 beni) è stato assegnato per il riutilizzo, mentre il restante 45 per cento rimane sotto la custodia dell’Agenzia nell’attesa di un’assegnazione. In altre parole, l’offerta supera la domanda”, come riporta Lavialibera.
Accade quindi che molti beni confiscati rimangano a marcire in stato d’abbandono come ci ha raccontato Stefania Petyx in merito a Villa Maltese, confiscata a Cosa Nostra e lasciata cadere in rovina negli anni.
Ma succede anche che alcuni di questi immobili giungano a rifiorire, venendo assegnati a realtà del terzo settore attive nel sociale o ad associazioni impegnate nei diversi ambiti dell’impegno civico. La storia dell’immobile che da bunker del boss Giovanni Brusca è diventata sede dell’emittente antimafia Telejato.