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Caporalato, bracciante agricolo finisce in ospedale per aver chiesto una mascherina

Caporalato, bracciante agricolo finisce in ospedale per aver chiesto una mascherina

Caporalato, bracciante agricolo finisce in ospedale per aver chiesto una mascherina

Aveva chiesto una mascherina e altri dispositivi di protezione individuale al suo datore di lavoro, come d’altronde prevede la legge. Ma per tutta risposta è stato picchiato e gettato in un canale, oltre a essere stato licenziato.

È successo a Terracina, in provincia di Latina, dove un lavoratore di origini indiane è finito all’ospedale ins eguito all’episodio di violenza subito.
 

Il racconto del bracciante picchiato per aver chiesto la mascherina

Le indagini a carico di due persone, il datore di lavoro 52enne e il figlio, sarebbero iniziate dopo che la vittima si è presentata al pronto soccorso dell’ospedale di Terracina con ferite alla testa provocate – pare – da un oggetto contundente, varie fratture e lesioni in più parti del corpo.

Secondo quanto raccontato agli investigatori, la violenza sarebbe scoppiata dopo che il bracciante avrebbe chiesto i dispositivi di protezione individuale per proteggersi dal Covid-19: i due datori di lavoro, infatti, non solo avrebbero licenziato l’uomo, ma alla richiesta della paga per il lavoro svolto fino a quel momento. avrebebro risposto con calci, pugni, ingiurie e minacce, prima di gettarlo in un canale.
 

Le condizioni di lavoro dei braccianti scoperte dagli inquirenti

A seguito delle indagini e delle perquisizioni effettuate, gli inquirenti hanno trovato il bastone che si crede sia stato utilizzato per il pestaggio e hanno potuto appurare le condizioni di sfruttamento dei braccianti, oltre alla violazione delle norme vigenti in materia di sicurezza sanitaria.

I lavoratori erano costretti a lavorare anche 12 ore al giorno, tutti i giorni della settimana, compresi i festivi, senza riposo e senza congedi per malattia, in cambio di 4 euro l’ora. Nella busta paga dei braccianti infine sarebbe stato contabilizzato solo un terzo delle giornate di lavoro effettivamente prestate.

Striscia la notizia già diverse volte si è occupata di documentare le condizioni inaccettabili in cui sono costretti a vivere e lavorare i braccianti agricoli. Recentemente era stato Luca Abete a mostrarci lo sfruttamento che avviene in alcuni campi di San Tammaro, in provincia di Caserta.


Ma quella mostrata dal nostro inviato è una situazione che si ripete da anni e in ogni parte d’Italia.

Durante l’emergenza Coronavirus, a causa del lockdown, un’intera filiera rischiava di andare in malora perché sprovvista di lavoratori stagionali per via delle restrizioni cui erano sottoposti i braccianti stranieri. Il problema era stato sollevato da sindacati e agricoltori in un servizio di Rajae.

Il commento di Teresa Bellanova: “Ecco perché sono convinta che quella per la regolarizzazione sia stata una battaglia giusta”

Durante la conferenza stampa dello scorso 13 maggio, la Ministra delle politiche agricole alimentari e forestali Teresa Bellanova aveva annunciato la sanatoria per far emergere dal nero i migranti che lavorano nei campi.

“Ho proposto di creare un percorso di legalità per le persone presenti nel nostro Paese e non solo per il settore primario, per una scelta di civiltà, per garantire sicurezza alle comunità, per non voltarsi dall’altra parte e lasciare la criminalità indisturbata nello sfruttamento delle persone e delle imprese perché se non è lo Stato a farsi carico della lotta al caporalato l’alternativa è lasciare campo libero alle mafie“, aveva spiegato già nel Question Time in Senato, aggiungendo: ““Quelli che chiamate clandestini, sono persone, uomini e donne, lavoratori che si è fatto finta di non vedere”.

La storia del lavoratore picchiato a Terracina è stata lo spunto per la Ministra per ritornare sulla questione.

“Un bracciante di origini indiane a Latina è stato prima licenziato, perchè si era permesso di chiedere mascherine e dispositivi di protezione mentre lavorava, e poi massacrato di botte dall’imprenditore che lo sfruttava per la raccolta, perché voleva essere pagato.

Sono questi i motivi per cui sono convinta che la battaglia per la regolarizzazione sia stata una battaglia giusta. Perchè la mascherina mentre si lavora, i guanti, gli strumenti di protezione e prevenzione del virus sono un diritto. La sicurezza è un diritto. La salute è un diritto. Avere un lavoro con orari e paga dignitosi è un diritto. Poter vivere in condizioni di vita umane è un diritto. Dove lo Stato non è presente, dove si insinua il caporalato, questi semplici diritti sono negati e migliaia di uomini e donne sono costretti a rimanere invisibili. Sono orgogliosa di poter dire che questa volta lo Stato ha scelto di esserci e di restituire a queste persone i loro diritti e la loro dignità”.

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