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L’Italia strisciata

L’Italia strisciata

L’Italia strisciata

Striscia la notizia compie 35 anni. Ecco cosa scriveva il giornalista-critico-saggista Edmondo Berselli nel 2008 in occasione del ventesimo compleanno, come introduzione al volume “Venti di Striscia” (Electa)

Sarebbe un esercizio troppo facile descrivere Striscia la notizia come una delle ultime incarnazioni della commedia dell’arte. Si tratta di una definizione che risulterebbe adeguata se il «prodotto», iper-realista o super-falsificato, inventato da Antonio Ricci non fosse, alternativo o no, un telegiornale: vale a dire se il nichilismo programmatico di Striscia non fosse un oggetto televisivo, se non fosse televisione pura, emanata sera per sera attraverso le antenne. Premesso questo, è chiaro che gli archetipi letterari, cioè la commedia, la satira e la farsa, vanno maneggiati con prudenza. E andrà trattato con cautela anche il concetto di infotainment, ossia l’informazione ibridata con l’intrattenimento, poiché le leggerezze anglosassoni poco si addicono alla sostenibile pesantezza di Striscia

Il fatto è che non si riuscirebbe a spiegare compiutamente il caso di un programma televisivo serale, che giunge ai vent’anni di vita (è nato su Italia 1 il 7 novembre 1988), se non si comprendesse la sua sostanza più profonda. Provare a spiegarla, questa essenza, può rivelarsi anche frustrante perché Striscia è uno sciame, una miriade di “cose”. Se si scompone sul tavolo anatomico il programma di Ricci viene fuori un collage di generi spettacolari e di oggetti giornalistici, vecchi e nuovi: il reportage, il teatro di rivista, il varietà, il tormentone, e poi di nuovo l’inchiesta, lo scoop, il gossip, l’intervista rubata, il fuorionda. E ancora la satira e lo sbertucciamento. L’ironia e il compatimento. La tragedia quotidiana e la farsa permanente. Ma tutto questo, anche sommato e intrecciato, centrifugato alla rinfusa nella dimensione dell’etere, non spiegherebbe del tutto la formula della trasmissione e il suo successo. L’alchimia di Striscia è una miscela che verrebbe voglia di definire banalmente esplosiva, se non fosse che le esplosioni a raffica e a iosa diventano presto normalità catodica, pura regolarità quotidiana, insomma perfetta routine domestica.

Conviene allora tentare di identificare l’anima vera, cioè l’anima nera, del programma. Vero è che occorrono ipotesi un po’ eroiche e scapestrate sotto il profilo teorico. Ma d’altronde, chiunque si occupi della fenomenologia contemporanea, non importa che si tratti di costume, società, cultura, televisione, sa quanto sia irriducibilmente vero lo schema paradossale del filosofo del pessimismo cosmico, Arthur Schopenhauer: «Ogni nuova verità passa per tre fasi. All’inizio si tende a ridicolizzarla. Poi la si attacca violentemente. Infine, la si dà per certa». A occhio, oggi dovremmo essere prossimi all’ultima fase. Quindi, trasportando la filosofia idealistica tedesca a contatto con la bassa macelleria italiana contemporanea, tanto vale prendere le mosse da una tesi estrema, intellettualmente disperata, culturalmente avventata. Proviamoci subito. 

La tesi possibile è che Striscia costituisce il punto ideale, il luogo cartesiano perfetto in cui la televisione e la società coincidono. L’avventatezza massimalista e teppistica di questa asserzione è attestata dal fatto che non si vuole sostenere che il programma di Ricci e della sua numerosa band “rispecchia” la realtà italiana, magari in mille pezzi, come uno specchio in frantumi. No, la tesi sarebbe ancora banale. L’équipe di Ricci sarà pure, come disse Walter Veltroni, «una specie di enclave albanese in terra di Berlusconi», e questo va bene, ma considerare il leader e i gregari una compagnia di sociologi sarebbe molto riduttivo. Non c’è niente di originale nel dire che la televisione riflette la vita quotidiana, la elabora e poi la proietta di nuovo sulla collettività, in un gioco di rifrazioni multiple con cui il mezzo intensifica il messaggio e viceversa. Valeva anche per il teatro e il romanzo ottocentesco. E ci vuole poco a capire che il discrimine fra una ragazza qualunque e una Velina di Striscia è saltato da tempo: si è stabilita invece un’interazione fruttuosa attraverso la quale il look della Velina rafforza quello della ragazza media, e viceversa, sicché nessuno si stupisce se alla fine di questo gioco di rafforzamenti reciproci il mestiere della Velina, cioè il mestiere di una tizia senza mestiere, è diventato un punto di riferimento professionale per intere coorti femminili (e il look da squinzie, anzi lo stile “raunch” secondo i termini in voga dopo la lezione estetica di Sex and the City, è naturalmente identico per le professioniste e le dilettanti). Ma questo ce l’aveva già spiegato con il suo professionale realismo cinico un antesignano della «televisione come nulla assoluto», Gianni Boncompagni, ai tempi di Non è la Rai: «Non le vogliamo troppo belle altrimenti non c’è identificazione». Qui, con Striscia, si è verificato un passaggio in più. Siamo oltre. In pieno postmoderno. Prima si è aperto un pertugio, tra lo show e la realtà, verificato per esempio dai cinque voti presi dal Gabibbo alle elezioni presidenziali del 1992, quelle in cui alla fine fu eletto il premoderno Oscar Luigi Scalfaro. Poi è lo stesso Ricci a suggerire una specie di identificazione totale fra lo spettacolo della televisione e la televisione dello spettacolo, con la sovrapposizione senza scarti tra la quotidianità e la fiction, fra la notizia e il fattoide: «Nel maggio 1996 Striscia raccoglie le proteste dei cittadini di Solto Collina (Bg) per un collegamento della trasmissione Linea Verde: i volontari del Wwf hanno sporcato i boschi con vecchie acque e lavatrici rotte per rendere più spettacolare la presenza dei Pooh che partecipano all’operazione “Bosco pulito”». Non è meraviglioso? C’è l’ambientalismo criminogeno, la capacità di allestire una location suggestiva, i Pooh. Non restare chiuso qui, pensiero. E se ai primordi del programma Federico Fellini l’aveva definito «delinquenziale», adesso, come si vede, l’accusa si ritorce verso gli eventuali accusatori: in ogni caso diventa più complicato individuare chi distorce che cosa, distinguere il manipolatore e il manipolato, districare le buone intenzioni dai cattivi pensieri e dalle pessime azioni. Tanto per dire, quando nel 1990 Ezio Greggio e Raffaele Pisu, pochi minuti prima della serata finale del Festival di Sanremo, annunciano la vittoria dei Pooh (eccoli di nuovo, immancabili), l’oltraggio è al Festival come cerimonia televisiva o alla nazione stessa, che a Sanremo ha una delle sue cattedrali? E quando Pippo Baudo, nel 1992, accusa Striscia di avere fatto perdere le elezioni alla Dc, trattasi di delirio o di preveggente analisi critica? Comunque il cortocircuito appare evidente. Occorre solo accertare se è doloso, ma non sembrano esserci dubbi. La scena italiana contemporanea si è già trasformata in un set di riprese televisive, dove tutto è finto, quasi vero, e in fondo più che reale. Ha un bel dire il suo autore che «il dubbio è il padre di Striscia»; basta un piccolo rovesciamento di prospettiva per giungere alla conclusione che se il dubbio ne è il padre, la figlia di Striscia è la verità. Purtroppo, una verità fastidiosa, irritante. La verità che affiora nel film preferito (dicono varie fonti, ma bisognerebbe accertare) di Ricci, L’angelo sterminatore di Luis Buñuel, dove la buona borghesia, messa sotto stress, lascia venire fuori i suoi umori nefasti. E quindi, accendete pure la televisione per vedere gli sberleffi della coppia Greggio e Iacchetti, ma dovete sapere che non state accingendovi a guardare un telegiornale alternativo, ma a gettare uno sguardo peccaminoso, e in fondo consapevolmente colpevole, sulla realtà autentica dell’Italia di oggi. 

Certo, la tesi dell’identificazione totale fra televisione e società dispiace ai moralisti. Per la verità dispiace anche a chi conserva una manieristica fiducia nella cosiddetta società civile. Vedi il caso di Giorgio Bocca: «Come se il genio spettacolare di Ricci nella dissacrazione della politica fosse mirato a far finire in brago, in risatine fra una birretta e l’altra, fra uno sbadiglio e l’altro, tutto ciò che per i ragazzi del Sessantotto era questione di vita o di morte, di passioni brucianti, di odi inestinguibili. E Ricci sembra divorato da un suo cupio dissolvi, non resiste più di una settimana e poi cambia i suoi guitti, li sceglie fra i sempre peggio. Sembra che abbia fatto una scommessa con se stesso: ehi!, ragazzi invecchiati di tutte le rivoluzioni, vi faccio ridere anche con Gino Bartali…». 

Per tutti costoro, e per la loro nostalgia verso l’Italia del Partito d’azione, varrà la pena di ricordare l’aforisma di Ennio Flaiano sulla «lunga dittatura degli italiani sull’Italia». Ma se si abbandonano certi reperti d’epoca (civile la società, figurarsi: basta fare un viaggio in autostrada per perdere le illusioni, dopo avere subito il terzo sorpasso a destra), e si ragiona più esattamente in termini di televisione e audience, lo stile di Striscia risulta immediatamente aderente al suo pubblico. Il programma offre quella combinazione di informazioni e satira che consente agli spettatori di essere in sintonia totale con gli autori e i conduttori del programma. Striscia la notizia contempla l’Italia attraverso i suoi inviati, mentre il pubblico osserva quella iper-Italia prima illudendosi di non farne parte, ma poi via via comprendendo che di fronte al paese descritto dalla televisione nessuno può dirsi innocente, e nemmeno estraneo. 

Allora diventa ragionevole sostenere che l’unico sentimento che si può provare, con Striscia e con l’Italia di oggi, è la complicità. Vale a dire che in un eventuale procedimento giudiziario non sarebbe possibile a nessuno di noi, noi spettatori intendo, invocare la non colpevolezza: al massimo ci si potrebbe rifugiare nella preterintenzionalità. Perché l’errore più sciocco sarebbe proprio giudicare Striscia dalle sue intenzioni; quando invece conviene prendere atto dei risultati. 

Ma anche qui non è il caso di fraintendere. Non si tratterà di mettere in memoria che alcune espressioni sono diventate parte del lessico comune (valga per tutti «È lui o non è lui? Certo che è lui!», uno degli slogan intellettuali di Greggio, la sigla della sua visione della vita). Questa è la logica eterna del tormentone, che funziona a tutte le latitudini e in tutti i generi spettacolari e letterari, anche praticato da scrittori severi. I risultati più significativi di Striscia sono alcuni oggetti mentali o mnemonici che si sono costituiti nel tempo, e nella memoria. «Icone», se si potesse ancora pronunciare questa parola, come certe scene di Quentin Tarantino: cioè frammenti mitici, isolati dal flusso dell’esperienza storica, che tuttavia identificano una situazione, un protagonista, una personalità, un momento. Figure della fenomenologia dello spirito, o figurine di un album virato sul grottesco. In questo catalogo può esserci l’intervista «muta» di Stefano Salvi a Enrico Cuccia, che descrive il deus ex machina di Mediobanca come nessuno c’è mai riuscito, fissandolo per sempre in una sola immagine. Oppure l’arte cospirativa e postdemocristiana di Rocco Buttiglione, beccato da un fuorionda galeotto in uno dei complotti peggio riusciti della Seconda Repubblica, il tentativo di liquidare Gianfranco Fini e di sostituirlo nel cuore del Cavaliere. 

In vent’anni non c’è che l’imbarazzo della scelta, naturalmente. Se volete l’ex governatore della Banca d’Italia, il piissimo Antonio Fazio, che invita la scorta a dare un po’ di botte all’attapiratore, il povero Valerio Staffelli, eccolo qui. Ma per altri spettatori Striscia sarà restata nel ricordo per qualche inchiesta memorabile e qualche scoop incendiario: come ad esempio le navi irachene nel porto di La Spezia, piene di armi in pieno embargo; oppure la scoperta dell’elettrosmog vaticano, lo scandalo dell’uranio impoverito, il declino e la caduta cult di Vanna Marchi, per finire con il noir sull’Umberto I di Roma, con il policlinico trattato come in un film espressionista di Murnau. 

Si potrebbe continuare per pagine e pagine. Ma basta questo sporadico riassunto per suggerire che il programma-vilipendio inventato da Ricci è diventato parte della memoria collettiva. Anzi, è davvero possibile che si sia sostituito almeno in parte alla memoria ufficiale. Negli annali della Repubblica figureranno la transizione incompiuta, il sistema maggioritario, lo schema bipolare; ma nella storia ufficiosa del Paese, dove si annidano le verità poco confessabili, gli sghignazzi, gli strilli del Gabibbo, le parodie di Valentino e di Luca Cordero di Montezemolo, il set quotidiano si apre ogni giorno con la sigla di Striscia, una specie di sipario che si apre su un orizzonte dove «non ci son santi né eroi», e in cui tutto finisce ineluttabilmente in vacca. Proprio come nel Belpaese. Tanto che, visto che non sembra possibile riformare l’Italia, converrebbe almeno provare a riformare Striscia: se non si sapesse che da parte sua l’incorreggibile Striscia è, costituzionalmente, irriformabile.

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