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Zuckerberg e Meta rinunciano al fact-checking: noi siamo sicuri di saper riconoscere una bufala?

Zuckerberg e Meta rinunciano al fact-checking: noi siamo sicuri di saper riconoscere una bufala?

Zuckerberg e Meta rinunciano al fact-checking: noi siamo sicuri di saper riconoscere una bufala?

Lo scorso gennaio, il CEO di Meta, Mark Zuckerberg annunciava un’epocale svolta nella politica di moderazione dei contenuti postati online dagli utenti di Facebook, Instagram e Threads: l’abbandono dei programmi, affidati ad enti terzi negli Stati Uniti, finalizzati al fact-checking, cioè alla verifica delle fonti e della veridicità dei fatti riportati.

«Lavoreremo col presidente Trump per respingere i governi di tutto il mondo che se la prendono con le società americane e premono per una censura maggiore» spiegava Zuckerberg sostenendo poi che sempre più leggi di svariati governi extra Usa, in buona sostanza, fomenterebbero un’azione di censura nei confronti delle pubblicazioni degli utenti, soprattutto se inerenti a tematiche di attualità politica.

Da quel momento, negli States, a supervisionare la veridicità di fatti e post sono gli utenti stessi grazie ad un sistema di note collettive tramite cui segnalare post e contenuti ritenuti problematici.
Eppure, come hanno fatto notare esperti del settore, questo modello, di contro, potrebbe invece portare a piattaforme social all’interno delle quali i contenuti falsi o ingannevoli riuscirebbero, in assenza di verifiche qualificate, a proliferare indisturbati.

Siamo sicuri di saper riconoscere una fake news quando la leggiamo? La nostra Rajae ha condotto due esperimenti sociali sul tema, uno a Milano e uno a Roma, proponendo ai passanti alcuni titoli di giornale chiedendo loro di riconoscerne o meno la veridicità. Vediamo com’è andata a finire:

MILANO

ROMA

Che dire poi del fatto che talvolta sono anche le agenzie di stampa autorevoli, che quindi godono della legittimazione e della fiducia dei lettori, a pubblicare comunicati senza effettuare verifiche su fonti e contenuti e senza inserire la dicitura “sponsorizzati” in caso di testi pubblicati a pagamento? Il nostro Francesco Mazza ci parla del caso di Adnkronos:

Un caso, quello sollevato dal nostro inviato, che aveva fatto interrogare anche l’Ordine dei Giornalisti. Sentiamo cosa avevano detto ai nostri microfoni Carlo Bartoli e Angelo Baiguini, rispettivamente presidente e vicepresidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti:

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