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Il caso Fagnani e l’attualità di Striscia la tivú – Antonio Ricci, 1998

Il caso Fagnani e l’attualità di Striscia la tivú – Antonio Ricci, 1998

Il caso Fagnani e l’attualità di Striscia la tivú – Antonio Ricci, 1998

Francesca Fagnani indossa inconfondibili collier di una famosa marca di preziosi nel programma Belve, in onda sulla tv di Stato: la giornalista sceglie di farlo spesso e, ingioiellatissima, presta il suo volto alle cover di magazine che citano la specifica marca. Quegli scintillanti diamanti, quel brand, quel personaggio pubblico rimbalzano su social e testate di grande tiratura. Striscia la Notizia solleva il caso chiedendosi, in coerenza con le altre inchieste del passato, se sia lecito per un professionista dell’informazione promuovere prodotti commerciali. Il Testo unico dei doveri del giornalista è chiaro: «Non presta il nome, la voce, l’immagine per iniziative pubblicitarie».  Ma la giornalista professionista replica piccata all’inviata Rajae Bezzaz di non aver trasgredito alcunché, attribuendo al tg satirico la responsabilità di aver nominato il marchio. Ma è falso. Finita qui? No, proprio perché la verità dei fatti è capovolta.

Carta canta e canta anche la tivú. Emerge infatti un documento video clamoroso in cui Fagnani si sconfessa da sola ai microfoni di Vanity Fair, dichiarando orgogliosamente di indossare le creazioni di quel determinato gioielliere (ne fa il nome esplicitamente), di averlo fatto sia a Sanremo che durante il programma Rai e di portare quei preziosi perché «hanno una personalità fortissima». Tutto torna, i fili scintillanti si riallacciano: il legame è strettissimo mentre la deontologia si sfilaccia e va a farsi friggere. Quel che capita anche alla tutela dei cittadini, i quali invece hanno diritto a un’informazione sempre distinta dal messaggio commerciale.

Se saltano gli anticorpi, però, la televisione diventa sempre più «Tivú comprà», come si intitola ironicamente uno dei capitoli di un libro diventato un classico, per chi analizza la storia del panorama mediatico italiano. «La tivú è porno. Dal greco porne: meretrice (dal verbo pernemi) – scrive l’ideatore del tg satirico Antonio Ricci in Striscia la tivú pubblicato da Einaudi nel 1998 –. Come ogni meretrice deve essere agghindata in maniera esagerata per l’adescamento. È determinante sapere che la tivú non è una finestra sul mondo, ma una finestra sul mercato: il più grande telemarket dall’inizio della storia dell’Umanità». Nell’universo ripreso dalle telecamere «tutto è sempre confezionato per la vendita. Vendite anche subdole: guardi un telegiornale e pensi di ricevere una notizia, invece ti stanno vendendo un’idea politica e anche un’auto».

Nessuno mette in discussione la sostenibilità economica di un’impresa commerciale tramite spot, redazionali, réclame: il pericolo si annida nell’ambiguità. Cos’è infatti la pubblicità occulta? «La pubblicità a prodotti fatta con nonchalance e in maniera infingarda, fuori dagli spazi consentiti. Esemplifica bene il discorso di tivú come finestra non sul mondo, ma sullo scaffale del Grande Magazzino» sintetizza Ricci con efficacia. «E il bello è che a volte sceneggiatori e registi non ne sanno niente, spesso il portatore insano di pubblicità occulta è il protagonista oppure lo scenografo o il costumista, d’accordo con il Produttore».

Il caso al centro delle polemiche di questi giorni – che sarà oggetto di altri inediti approfondimenti nel programma di Canale 5 – ha destato l’attenzione del Codacons che ha presentato un esposto. Il dubbio è il padre di Striscia, si sa. Ma i dubbi che il tg satirico alimenta nascono dalla lettura delle norme e dalla difesa di diritti.  A volte è utile un ripassino. A questo scopo risultano determinanti le parole del presidente dell’Ordine dei giornalisti del Lazio Guido D’Ubaldo intervistato dall’inviato Pinuccio nella puntata di Striscia del 29 aprile 2024 in cui dice chiaramente che il caso esposto «è una violazione dell’articolo 10 del Testo unico dei doveri del giornalista» e aggiunge di aver «segnalato tutto al Collegio di disciplina» (qui sotto il video dell’intervista).

Sia le direttive dell’Unione Europea che la legislazione italiana prevedono una netta separazione tra i contenuti editoriali e i contenuti pubblicitari. Non si tratta di attaccare una determinata conduttrice o un certo presentatore: si tratta di chiedere ai giornalisti l’imparzialità, l’equidistanza e l’assenza di interessi occulti necessari a svolgere il mestiere di giornalista professionista.

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