Dell’inchiesta si è occupata Rajae Bezzaz che ha raccontato cosa succede dentro questi Centri di permanenza per il rimpatrio, dove i reclusi vivono talvolta in condizioni tremende. E anche chi li controlla, a quanto pare, non se la passa meglio.
La prima volta che Rajae Bezzaz si è occupata dei CPR (Centri di permanenza per il rimpatrio) era il 20 gennaio 2023. In totale (ad ora) l’inviata ha dedicato 12 servizi a questo filone. Si tratta di strutture utilizzate per identificare e rimpatriare gli immigrati irregolari o coloro che, dopo aver commesso un reato e aver scontato la pena in carcere, sono in attesa di essere espulsi. Il periodo di detenzione può arrivare fino a tre mesi.
Il CPR di Palazzo San Gervasio, in provincia di Potenza
Per la prima puntata Rajae Bezzaz si è recata nel comune di Palazzo San Gervasio, in provincia di Potenza, davanti al CPR. Lì ha mostrato alcune immagini esclusive che immortalavano la situazione dentro il centro: persone rinchiuse in gabbie, bloccate con fascette e costrette a prendere sedativi. Cosa hanno fatto per finire lì? Rajae l’ha chiesto al Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, che ha spiegato: «Si può essere irregolari per vari motivi, perché si è arrivati e non si hanno i documenti, perché si aveva il permesso di soggiorno ed è scaduto o, magari è fallita la ditta dove si lavorava e si rimane amministrativamente irregolari». Le condizioni di vita in questa struttura sono pessime: ogni stanza, di 25 metri quadrati, ospita quattro persone. C’è un bagno, ma senza porta. Gli unici altri arredi sono i letti e un tavolo in cemento, mentre il collegamento con l’esterno conduce a una gabbia che si affaccia sul piazzale.
In Italia ci sono dieci CPR. Tre al nord a Milano, Torino e a Gradisca d’Isonzo in provincia di Gorizia; uno a Roma e gli altri sono in Sardegna e al Sud (a Macomer, in provincia di Nuoro, a Bari, a Palazzo San Gervasio, a Brindisi, a Trapani e a Caltanissetta).
Il centro in via Corelli, a Milano
Il 27 febbraio l’inviata si è occupata del centro del Capoluogo lombardo, in via Corelli. Rajae ha intervistato Ismail Maher, che lì ha fatto per due mesi il mediatore culturale e ha raccontato: «Vedevamo ogni giorno gente, ospiti che entravano e gli venivano iniettati psicofarmaci quando non ne avevano bisogno, soltanto per tenerli sotto controllo». Maher ha spiegato che nel CPR i tranquillanti venivano somministrati per i dolori più banali, come mal di testa, di pancia e influenze. «Ma aumentando la dose, aumenta anche la crisi di astinenza, aumenta il rischio per il personale che lavora dentro, aumenta il rischio che succedano rivolte o suicidi, com’è successo in passato», ha aggiunto. E chi si rifiutava di sottoporsi alla “terapia” veniva minacciato di restare senza cibo o di non ricevere i pochi soldi che la famiglia gli mandava. Ma la situazione nel centro era difficile anche per chi ci lavorava, che subiva tremende pressioni piscologiche. Per esempio, a settembre 2022 un giovane poliziotto, un caro amico di Ismail Maher, si è suicidato dentro il CPR.
L’intervista a un esponente delle Forze dell’Ordine
Ed è proprio un esponente delle Forze dell’Ordine che ha deciso di incontrare l’inviata nell’ultima puntata (ad ora) del filone, datata 15 maggio. L’uomo, il cui volto è stato oscurato e la voce è stata resa irriconoscibile, ha lavorato nel CPR e ha confermato quanto descritto da Maher. Riguardo agli psicofarmaci, ha precisato che venivano somministrati da degli «pseudo dottori, perché li chiamano dottori ma non sappiamo effettivamente se lo siano o meno». Il testimone ha poi spiegato che i reclusi vivevano tutti insieme, sia quelli che avevano commesso reati, sia quelli che erano solo irregolari. Inoltre, ha aggiunto che all’interno del centro gli ospiti «non fanno nient’altro che vegetare, chi a letto, chi seduto, chi guarda la televisione. A stare lì dentro uno finisce che impazzisce veramente. C’è stata gente che si è tagliata e chi ha tentato il suicidio».