Beppe Grillo seminudo mentre si finge samurai e spaventa i clienti giapponesi di un albergo a Tokyo; l’angoscia di Paolo Villaggio durante l’addio a Fabrizio De André: “Sono molto invidioso di questo funerale”. Gli anni di Drive in (“Vivevamo quasi tutti dentro un residence, la notte non dormivamo. Ogni tanto qualche cliente ignaro si univa alla nostra baraonda”); il periodo del Derby di Milano (“Il più sveglio di noi era Gianfranco Funari, un giorno scopro il suo cachet, il triplo del mio, e gli domando come era riuscito a ottenerlo: ‘Mi sono presentato al locale con una macchina cabrio, vestito in un certo modo, una sventola bionda al mio fianco e ho ordinato champagne. Hanno capito quale era il mio stile di vita’”); i sei lustri di Striscia la notizia, tra accuse, scoop, polemiche e picchi dell’Auditel. Gli scontri con Pippo Baudo, quelli con Repubblica (“Hanno goffamente indicato il Drive in come matrice, come primo grimaldello del berlusconismo, e solo per ragioni commerciali, per guadagnare dei lettori”); o il finto licenziamento di Johnny Dorelli nel 1989, ancora a causa di Grillo.
Questo (e solo in parte) è Antonio Ricci, uno dei pochi ad aver intuito l’evoluzione del linguaggio televisivo senza subirlo; ha imposto il suo percorso, ha segnato, ha gigioneggiato con le polemiche, costruito format. Milioni e milioni di telespettatori ogni giorno, domina la televisione senza quasi mai apparire (“non mi interessa, sono pure un po’ timido”); per molti lui è un mistero in parte svelato dentro Me Tapiro, il libro dove viene intervistato da Luigi Galella.
Quindi Antonio Ricci esiste…
Ma no, ho solo voluto puntualizzare in maniera documentata e documentabile una serie di vicende, molte delle quali legate a Striscia la notizia. E poi se uno mi pressa molto, alla fine cedo.
Lei che cede? Sembra improbabile.
Calcolo quanto impiego a dire “sì”, rispetto a quanto mi costa un “no”. Comunque non andrò in televisione per presentare il libro.
Ne è certo?
Senza dubbio, mi ha pure chiamato Maurizio Costanzo, al quale ho risposto: “Non ricordi? Anni fa ho dichiarato: ‘Se mi vedrete in un talk, per punizione andrò una settimana a casa di Costanzo a fargli le pulizie’”. Meglio evitare…
Neanche incontri in libreria?
Solo uno, uno e basta fissato, a sottolineare la sfiga, di venerdì 17. Mi intervista Oscar Farinetti.
Farinetti di Eataly?
Sono curioso di verificare qual è la sua capacità d’ascolto.
Non parlerete di cibo: nel libro racconta la sua scarsa passione per quasi tutti i generi alimentari.
Per un decennio ho declinato gli inviti a cena a casa di amici: temevo di offenderli; per anni ho nascosto un formaggino in tasca da consumare al ristorante e a volte sono svenuto sul lavoro perché da due giorni avevo dimenticato di mangiare.
Quale valore dà al suo tempo?
A volte mi infilo in alcune situazioni solo per la curiosità e non la sostanza oggettiva; anche le questioni che in apparenza sembrano una perdita di tempo, poi sbocciano con modalità inaspettate.
Un esempio…
So per esperienza che quando sono per strada i comici vengono fermati da persone, da fan inebriati dal desiderio di raccontare a loro una barzelletta; nel mio caso il coinvolgimento da parte del prossimo tocca i loro problemi, e alcune storie poi si tramutano in spunti importanti per la trasmissione. Insomma, ascolto.
Non sono sempre vicende interessanti…
Mi raccontano pure delle briciole cadute dal balcone del vicino. Una volta una signora ha protestato: “Iacchetti è scorbutico, ha rifiutato un selfie”.
Non si fa.
Vado da Enzo: “Che combini?”. E lui: “Ma Antonio, era il funerale di mia zia!”
Iacchetti ha dichiarato al “Fatto”: “Con Ricci subisco la sudditanza intellettuale”.
Metto soggezione, questo lo so. Da sempre. Pure alle elementari ero così.
A tutti?
Anche a mia suocera.
La invidieranno in molti.
Infatti per svelare questo mistero dovrei donare il mio corpo alla scienza: al liceo mi hanno affibbiato 7 in condotta solo per il mio sguardo.
Nella foto di copertina di “Me Tapiro”, il suo primo piano ha un certo piglio.
Intimorisce perché è una foto da lapide con scritta ottonata. Comunque, quando giocavo a pallone, i compagni di squadra mi guardavano per capire se era fallo o no. Mi bastava un cenno della testa.
Iacchetti aggiungeva: “Non so mai se è serio o se mi prende in giro”.
Dopo anni e anni neanche mia moglie lo intuisce, ma non è un atteggiamento studiato. Quando da giovane ero un professore, ed entravo in aula, i ragazzi smettevano immediatamente di vociare o lanciarsi oggetti. Zitti.
Fermi.
Allora il suo è carisma.
Se lo dice così, mi fa schifo. Sembra una malattia.
Nel libro definisce Giorgio Faletti come “uno in grado di raggiungere qualsiasi obiettivo”.
Che soggetto… (si azzittisce qualche secondo). Con le sue battute era in grado di portarti alle lacrime, in alcune serate ci ha regalato la versione francese di Vito Catozzo (uno dei suoi personaggi celebri), ho visto la gente singhiozzare per le risate; il giorno dopo si svegliava e magari ti teneva mezz’ora ad asfissiarti sui rally, come si prendono le curve, il motore dell’auto (Faletti era un grande appassionato).
Imprevedibile.
Andava avanti, non si poneva la domanda se il suo interlocutore fosse interessato.
E a lei di auto…
Non me ne frega nulla: ho preso la patente a 23 anni e solo perché mi hanno scambiato per il figlio del pediatra di Albenga.
Com’è possibile?
All’orale di guida mi domandano quale acqua si inserisce nella batteria; rispondo: “Una speciale, tipo quella di Lourdes”. Silenzio. Poi l’esaminatore si riprende e sibilla: “Vada pure e ringrazi suo papà: ha curato bene mio figlio”.
Suo padre non è pediatra.
No. Un’omonimia, ma sono rimasto zitto e non ho svelato l’errore perché spesso mi ero beccato le insufficienze della figlia del pediatra: eravamo in classe insieme e i professori sbagliavano a segnare i voti sul registro.
Bruno Voglino ha raccontato della fragilità di chi vive nello spettacolo.
Mi ricordo Faletti, per la tensione gli veniva qualunque male, era oltre ogni idea d’ipocondria e di valore psicosomatico: poco prima del debutto a Striscia gli esplose un ascesso con la guancia tramutata in ganascia. Si è quasi del tutto sgonfiata poco prima della diretta.
Oltre a Faletti?
Gigi Sabani prendeva delle scosse elettriche devastanti, saltava sulla sedia. Peccato che la struttura era in legno.
Sempre nel libro loda Francesco Salvi…
Un pazzo! Ai tempi del Derby, io, lui e Giorgio (Faletti) finito lo spettacolo uscivamo verso le due di notte e sistematicamente ci fermava la polizia solo perché io e Salvi portavamo i capelli lunghi fino alle spalle e a giravamo con la chitarra dentro la custodia.
Quindi?
Ci scambiavano per terroristi con il mitra nascosto. Così una sera Faletti sbotta: “Basta, non ne posso più, o vi tagliate i capelli o non esco con voi”. Non è più uscito.
Salvi, “un pazzo”.
Senza limiti. Andavamo al ristorante, afferrava le fiamminghe di verdura e le scolava come fossero un frullato, con tutto l’olio che gli colava addosso; finita la cena saliva in piedi sul tavolo, risucchiava col labbro superiore il bicchiere da vodka in modo che gli rimanesse appiccicato come la proboscide di una mosca e cominciava, ronzando, a svolazzare sui piatti dei commensali.
Torniamo alla fragilità degli artisti.
Sono precari, quindi è normale. Ma è anche la condizione psicologica che gli permette di trovare lo scatto giusto per salire in scena e sfidare il pubblico: è una selezione naturale, la loro selezione…
Lei cambia la vita degli artisti.
No, do l’opportunità, il resto dipende dalla serietà e dalla capacità di chi sa sfruttare l’occasione. Poi il fattore “tempo” prevede dell’altro, gioca con il contesto.
Si riferisce a “Drive in”? Molti cabarettisti di quel periodo poi sono scomparsi o non hanno mantenuto lo stesso livello.
Il ciclo del comico è anche breve: quando ti esibisci scarichi le tue potenzialità sul palco, qualche anno dopo arriva un altro, che ha più o meno il tuo stesso repertorio, e lui funziona meglio di te solo perché è nuovo. Accade così. È ineluttabile, e non è un difetto risultare circostanziato. Ci sono scrittori ciclici, calciatori passanti, soubrette con la scadenza, filosofi trompe l’oeil…
Anni fa si è definito “filopalestinese, antinuclearista e ambientalista”. Lo è ancora?
Sono nato così, piuttosto sono cambiati gli altri attorno a me. Però ci sono argomenti che mi danno fastidio a prescindere dalla sostanza: per ridurre tutto a Laura Boldrini, lei a volte esprime concetti che pure condivido, ma detti da lei non li sopporto.
Grillo vestito da samurai mentre spaventa gli americani in Giappone…
Tutto vero; era talmente felice della sua performance da arrivare alla febbre: vestito con un solo asciugamano correva mezzo nudo per i corridoi di un albergo di Tokyo, ma l’aria condizionata ha poi punito il suo intenso sudare.
Con Grillo lei ha licenziato Dorelli…
Dorelli conduceva Finalmente venerdì, ma non andava benissimo. Così con Beppe ci presentammo ai piani alti dell’allora Fininvest sostenendo che nella notte Berlusconi aveva deciso l’avvicendamento con Grillo. Ovvio, era una bufala. Il bello è che alcuni dirigenti ci risposero: “Sì, lo sappiamo, il presidente ce ne aveva parlato”; oppure “sì, ho dato il mio benestare, sono felice della scelta”.
Dorelli felice.
Imbufalito. Voleva lasciare il programma.
Lei dedica ampi capitoli alle donne, definite “tostissime”.
Lorella Cuccarini arrivò a Mediaset perché abbandonata da Pippo Baudo e nonostante le sue caratteristiche fisiche non rientrassero esattamente nelle grazie di Berlusconi: troppo poco formosa…
La Cuccarini la ringrazia, ma dice pure che lei l’ha destrutturata.
Da sola ballerina, le ho dato il passo comico e da conduttrice, senza troppi regali, fronzoli o sconti: uomini e donne li tratto nello stesso modo, con me non ci sono scuse, facili fughe o giornate negative.
Carmen Russo.
È un uomo. L’ho vista cadere a terra, farsi malissimo, rialzarsi e ripartire senza alcun lamento.
Le Veline.
Ragazze con carattere, preparate, chi le immagina come solo “cosce” non ha capito nulla. Una volta ho salvato un giornalista di Repubblica dalle botte…
Cosa aveva scritto?
Dentro un articolo-vocabolario, titolato Alfabeto del potere, Francesco Merlo aveva sintetizzato in questo modo la lettera “E”: “Escort (vedi Veline)”; e sotto la “V”: “Veline (vedi Escort)”. Costanza Caracciolo e Federica Nargi erano decise: “Ci dia il permesso, vogliamo andare a Roma, assistere a una sua presentazione, e poi picchiarlo”. Le ho calmate.
Paolo Villaggio e il “suo” funerale…
Con lui ci siamo conosciuti quando ero un ragazzo, una testa rarissima. Il giorno dell’addio a De Andrè lo vedo in un angolo, solo; mi avvicino. E lui: “Sono molto invidioso di questa cerimonia. Io non ne avrò mai una così”. Ho cercato di rassicurarlo, ma da quel giorno ha iniziato a inscenare la sua morte, ciclicamente ripeteva l’annuncio, poi consegnava la smentita alle agenzie di stampa.
Lei ha definito Berlusconi come “femmineo: porta i tacchi, usa il trucco e ha i capelli tinti”.
Confermo.
È il suo editore.
E allora? Se lo penso lo dico.
Berlusconi ne sarà lieto.
Si professa come un campione del pensiero liberale. Ah, sia ben chiaro: io non ho l’esclusiva con nessuno, se non va bene sono sempre libero.
I ricavati del suo libro finiscono al gruppo Abele.
Perché da anni conosco bene Don Ciotti e il suo impegno.
Quante bugie ci sono in “Me Tapiro”?
È tutto vero, per cui so già che non sarò creduto.
(il Fatto Quotidiano/Alessandro Ferrucci, 5 novembre 2017)